Nessun ministro lo dice, ma il governo lavora per buttar giù il sottile diaframma che ci separa da un evento luttuoso: archiviare la Costituzione antifascista. Non è facile dire se la storia si ripeta e se nel «replay» prevalgano la farsa o la tragedia.
E’ certamente vero, tuttavia, che non c’è regime autoritario che non metta mano alla storia per storcerla, sicché è quantomeno ragionevole supporre che un popolo di «senza storia» sia più facile da assoggettare. Non a caso, perciò, nel dibattito sulla Costituzione, la storia è tenuta accuratamente ai margini o manomessa. Si fa un gran parlare di Carta superata dai tempi, si citano a proposito e sproposito fatti lontani estrapolati dal loro contesto storico, ci si riempie la bocca di parole gravi e paragoni impossibili con Paesi profondamente diversi, ma tutto ciò che si capisce, infine, è che il governo ha deciso di cambiare le regole del gioco. Un governo, non s’offenda nessuno, che non ha radici nella storia concreta di quel «popolo sovrano» che stenta la vita e, quando può, esprime col voto scelte del tutto opposte a quelle maturate nel chiuso dei palazzi. E’ giusto? E’ consentito? E’ un processo legale che corre sui binari di regole condivise? E’ una forzatura? Sono domande che dovresti sentire ovunque, per strada, nella metro, nei dibattiti televisivi, e invece non ne senti parlare.
La gente è indifesa. A chi ogni giorno fa i conti con la fame, la sfiducia, la disperazione, non puoi parlare di lotta, diritti e organizzazione - diceva ai compagni ai primi del Novecento Ernesto Cesare Longobardi, un socialista di cui nessuno si ricorda più – non puoi spiegare il senso dei grandi principi universali. Socialismo e democrazia sono anzitutto pratica di lotta, partecipazione, senso della storia e dialogo continuo tra governanti e governati. Tutto questo non c’è ed è sempre più difficile che le voci del dissenso trovino le via per emergere alla coscienza della collettività.
In tempi diversi da quelli bui che viviamo, sarebbe un coro quotidiano e lo saprebbero tutti: ben prima che la Repubblica nascesse, quando ancora si combatteva una terribile guerra di liberazione, un primo bilancio dell’esperienza totalitaria rivelò che uno Statuto flessibile come quello Albertino aveva consentito al fascismo di conseguire agevolmente due obiettivi solo apparentemente contrastanti: paralizzare il processo che da decenni stava trasformando una monarchia costituzionale in monarchia parlamentare e cancellare la già debole ispirazione liberale della Legge voluta da Carlo Alberto. Sia l’una che l’altra operazione erano state rese possibili dalla natura flessibile dello Statuto che pure, negli intenti del Re di Sardegna, doveva essere allo stesso tempo la legge fondamentale dello Stato e la garanzia perpetua e irrevocabile del potere monarchico.
Agli antifascisti «padri della Repubblica» fu subito chiaro: l’elasticità di una Costituzione modificabile mediante leggi ordinarie può consentirne anche un’evoluzione; lo Statuto Albertino, infatti, fu esteso al Regno d’Italia, vide i Governi dipendere dalla fiducia del Parlamento invece di quella del Sovrano e, grazie a soli decreti legge, poté essere adottato come soluzione transitoria tra la fine della guerra e la promulgazione della nostra Costituzione. Con altrettanta chiarezza, tuttavia, essi individuarono il germe della sua congenita debolezza: leggi ordinarie, di ispirazione radicalmente contraria allo spirito dello Statuto, ne possono stravolgere la natura senza che sia possibile difenderla. Se il fascismo poté condannare alla pena capitale la libertà d’espressione, condurre gli oppositori dinnanzi al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, approvare le leggi razziali e ripristinare la pena di morte nel Paese che fu di Beccaria, ciò fu possibile solo per il suo carattere flessibile.
Non a caso, perciò, dopo la tragedia fascista, prima ancora di sapere quale Italia sarebbe nata, tutti – nemmeno i monarchici osarono opporsi – concordarono su un principio: al di là della forma istituzionale che il Paese avrebbe scelto di darsi, lo Statuto Albertino andava abolito e nel giungo 1944 fu Umberto di Savoia, luogotenente del Regno, a firmare il Decreto Legge col quale si stabiliva che, cacciati i tedeschi, «sarebbe stato il popolo a scegliere le forme istituzionali e ad eleggere a tal fine […] a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato».
Varata la Costituzione, ci si rese ben presto conto che l’articolo 138 era lì a presidiarne il processo di revisione e negli atti della Costituente la ragione della sua esistenza è chiara: rendere il procedimento di formazione delle leggi costituzionali più complicato di quello previsto per le leggi ordinarie, in modo da impedire le semplificazioni e i colpi di mano. Si volle, insomma, «corrispondere all’esigenza di una più ponderata riflessione nel procedere ad atti così importanti: da ciò l’adozione del sistema delle due letture, a distanza di tre mesi l’una dall’altra» e «l’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nel voto finale in seconda lettura». Non era un capriccio. Cento anni di storia e la vergogna cui il fascismo aveva condannato il Paese avevano insegnato ai Costituenti la lezione più autentica della democrazia: la costituzionalità della legge è data dalla costituzionalità della regola seguita per approvarla.
E fu chiaro a tutti che si trattava di un principio così vitale, da rendere diversa persino la posizione del Presidente della Repubblica, perché, ebbe a scrivere l’on. Perassi per la Commissione – e l’Assemblea approvò – «trattandosi di legge costituzionale, non è possibile sollevare la questione di incostituzionalità. Al Presidente spetta solo di accertare che, trattandosi di una legge costituzionale, questa sia stata votata secondo il procedimento stabilito dalla Costituzione». Perassi, e con lui i «padri Costituenti», indicavano così a Napolitano la sola via legale che potrà percorrere quando il Governo Letta chiederà la sua firma: rifiutarla.