In una lontana introduzione a un ormai classico saggio di Pietro Grifone sul peso della finanza nella nostra storia, Vittorio Foa tornava addirittura a Bucharin per cogliere nella «simbiosi del capitale bancario con quello industriale» l'essenza della finanza
e ricordare un insegnamento di Lenin che non è mai stato attuale come oggi: non si può modificare la natura socialmente ingiusta e strutturalmente aggressiva del capitalismo dandogli una mano di vernice democratica. Il capitale in crisi non lascia vivere i diritti.
A guardare com'è ridotto il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione, è difficile dar torto al rivoluzionario russo. Ai ragazzi provenienti da classi subalterne si garantiscono scuole e università solo nelle fasi di espansione e crescita o quando, comunque, la difesa del saggio di profitto chiede pace sociale e un fantoccio di democrazia. E' questione di accumulazione, ma anche di «gerarchie sociali». La borghesia, figlia di una rivoluzione vittoriosa, conosce i meccanismi della storia e sa che una riforma del sistema formativo produsse il personale politico del populismo russo, avviò il processo che condusse all'ottobre rosso e costò l'Impero agli zar.
Di educazione in senso socratico - quella che ha a cuore l'intelligenza critica e l'autonomia del pensiero - non parla più nessuno; Socrate non è un'offerta che rientri nei piani dell'azienda. Cosa sia cambiato da Gelmini in poi, dove si differenzino i modelli di società, cosa distingua tra loro l'idea dei rapporti tra le classi e la concezione dello Stato non è dato capire. Il linguaggio è stato così violentemente deformato che un discorso politico diventa un non senso. E' una torre di Babele; Una linea comune, al contrario, traspare: la sottomissione incondizionata al predominio del capitale finanziario, la rinuncia ad assumere ruoli di mediazione di stampo giolittiano - persino il Giolitti del dopo Turati - con quel che ne discende in termini di trasparenza, autoritarismo, controlli di banche private sui pubblici affari e scelte operate all'ombra impenetrabile di consigli d'amministrazione.
Non è un caso se pratica di governo e cultura storica parlino ormai lingue diverse e il dibattito politico si riduca al desolante scontro tra opposizioni che fanno i conti della spesa, misurando il rapporto qualità-prezzo e maggioranze che insistono su promozioni da supermarket: «qui da me, prendi uno e acquisti tre». Tutto qui. Solo un'offerta accattivante, tutta lustrini e paillettes, mentre la miseria cresce e la tragedia incombe.
Non smentisce la regola la ministra Carrozza, ultima arrivata, in ordine di tempo, a quel Ministero dell'Istruzione che da anni spara a raffica su scuole e università, da anni precarizza e umilia il personale docente e lascia ai giovani briciole di istruzione che annunciano l'avviamento a un lavoro che non c'è. Ieri, in un incontro informativo coi sindacati, la ministra ha mandato in onda il suo spot, tutto numeri e percentuali: 11.268 docenti assunti per l'anno che comincia, le nomine divise a metà, 50% dalle graduatorie e 50% dal concorsone 2012, nozze coi fichi secchi, un tanto ai precari più anziani e qualcosa a giovani scelti con "metodo meritocratico", come comanda lo slogan che tira di più. Un colpo al cerchio e uno alla botte, senza far cenno alle procedure del concorso che non sono state completate e alla marea dei ricorsi pronta a salire. L'edificio crolla: 450 milioni per la sicurezza degli stabili sui 13 miliardi necessari e se un disastro farà morti ci penserà Napolitano con l'immancabile telegramma.
C'è chi ritiene che sia un problema culturale, chi sospetta si tratti invece di una cultura che non c'è più, ma la ministra non si fa domande. Come scendesse dalla luna, si dice sconcertata. Chissà, forse gli addetti all'immagine le hanno assicurato che la campagna pubblicitaria è andata bene e funzionerà. Non è facile capire, ma è certo che non si è accorta che le sue 11.000 immissioni sono ad un tempo un modelle perfetto d'ingiustizia sociale e un granello di sabbia nel deserto.
Chiunque al suo posto ricorderebbe il fanciullo di Sant'Agostino che con la sua conchiglia travasa l'Oceano mare in un buco scavato sulla sabbia. Lei no. Per lei l'«offerta è giusta» e c'è poco da discutere: prendere o lasciare, come vuole il mercato. In quanto ai ricorsi, secondo il costume della neonata democrazia autoritaria, stupita che la gente ancora pensi, si opponga e tenti le vie legali, la Carrozza scarta e finisce fatalmente fuori strada: c'è un'emergenza, dice, «la soluzione non può essere sempre il ricorso». La faccenda dei ricorsi, insomma, questo malnato diritto di difendere diritti, è un vero eccesso di diritti, un'anomalia da sanare al più presto. Chissà, forse la ministra pensa a una nuova campagna e all'immancabile offerta accattivante. E' urgente: la gente deve capire che la democrazia crea troppi impicci al mercato.
La storia, maestra senza allievi, è lì a dimostrarlo: la borghesia divisa sperimenta percorsi differenti ma non lontani tra loro. Per dirla con Gramsci, è al bivio di un nuovo «experimentum crucis»: non sa dove andare, ma non vuole stare ferma e si compatterà. Anche la sinistra è giunta ormai a un bivio cruciale: la gente è allo stremo. Il generico appello alla «legalità» non può bastare. Occorre tornare a una inequivocabile categoria di sinistra: la giustizia sociale.